venerdì 13 gennaio 2012

Kulturame Classici: A Una Pallottola di Distanza.

Una recensione di Wellington.

       
“L’Esercito mi inviò una lettera durante il mio primo anno a Dartmouth, promettendo di pagare per i miei studi post-laurea. La Marina e l’Aviazione fecero lo stesso, promettendo di fornirmi addestramento e capacità particolari. Il Corpo dei Marines non promise niente. Laddove gli altri servizi elencavano i vantaggi che potevano offrire, il Corpo chiedeva, “Hai tu quello che serve?”.

Da One Bullet Away. The Making of a Marine Officer di Nathaniel Fick.

                                

One Bullet Away di Nathaniel Fick è un buon libro pieno di spunti di riflessione che probabilmente entrerà tra i classici della memorialistica di guerra. Quantomeno tra i classici della guerra al terrorismo post-11 Settembre.

Il libro narra del figlio di una famiglia bene (e mi pare di capire un po’ liberal) del Maryland e della sua decisione di entrare a far parte come ufficiale del Corpo dei Marines degli Stati Uniti sconvolgendo in questo modo in maniera del tutto irresponsabile la comune visione che vuole le Forze armate USA composte da human trash e mentecatti malgrado le statistiche disegnino un quadro nettamente diverso (soprattutto dal 2001 in poi).

In epoca moderna sin dai tempi (come minimo) di “Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale” quando si parla in prima persona di vita militare in un libro convenzione vorrebbe che lo schema sia anti-iniziatico: il protagonista si arruola con tante belle idee in testa, ma verrà deluso. L’Esercito fa schifo, la guerra non è gloriosa, i buoni sono in realtà i cattivi e così via. Che poi altro non è che un rovesciamento dei racconti iniziatici in cui il protagonista è un povero cretino che impara a vivere veramente lungo il cammino. Insomma il solito gran gioco dei contrari in cui sguazza la nostra civiltà e che divide così comodamente l’universo in bianco e nero. Con Nathaniel Fick invece la realtà non sta ne’ da una parte e ne’ dall’altra, è solo molto più complicata.

Il giovane Marine si arruola con certe idee, molte delle quali ingenue, ma lungo la strada non scopre semplicemente che il bianco è nero e che il nero è bianco e simili festival della semplicità mentale, scopre invece una realtà complessa della quale non immaginava nemmeno l’esistenza. A differenza di certi racconti iniziatici ed anti-iniziatici in cui il protagonista è o “tutto dentro” (entusiasta della nuova realtà alla quale è stato iniziato) o “tutto fuori” (soffre l’orrore del mondo che ha scoperto), qui il protagonista si deve barcamenare in una realtà complessa. E ci riesce con successo.

                                      


La narrazione inizia con il giovane Nathaniel che si annoia a morte al College di Dartmouth e sente il bisogno di “iniziare una grande avventura, provarmi, servire il mio paese. Volevo fare qualcosa di così tosto che nessuno avrebbe mai più potuto parlarmi senza rispetto”.

Di qui in poi il libro ricostruisce l’addestramento di Fick dalla Scuola Ufficiali alla Scuola di Fanteria, all’addestramento Recon, e dal servizio in tempo di pace alle campagne in Afghanistan nel 2001 e Iraq nel 2003, offrendo uno sguardo approfondito sui metodi d’addestramento, gli exploit di guerra e anche la cultura e la mentalità del Corpo dei Marines degli Stati Uniti, uno degli ultimi bastioni di cultura guerriera del mondo occidentale.

In effetti il libro ha un qualcosa di “Fronte Occidentale”, è la storia di un uomo che, pur non essendo un guerriero per vocazione, è stato un soldato e lo è stato in maniera efficace, ma che è alla fine diventato un “guerriero riluttante”: “Ho lasciato il Corpo perchè ero diventato un guerriero riluttante.” – dice Fick – “Molti Marines mi ricordavano dei gladiatori. Avevano quella misteriosa qualità che permette a certi uomini di indossare schinieri e corazza e gettarsi nella mischia. Li rispettavo, li ammiravo e cercavo di emularli, ma non avrei mai potuto essere come loro. Posso uccidere quando è necessario, e apprezzo l’eccitazione del combattimento come tutti gli altri. Ma non avrei potuto fare la scelta consapevole di mettermi in tale posizione ancora e ancora per tutta la mia vita professionale. I grandi comandanti di Marines, come tutti i grandi guerrieri, sono capaci di uccidere ciò che amano di più, i loro stessi uomini”.

Sembra quasi di sentire Hericletus: in battaglia su 100 uomini 10 non dovrebbero nemmeno essere lì, 80 fanno solo da bersaglio, 9 sono veri combattenti e uno è il guerriero che riporterà a casa tutti gli altri. Questo passaggio mi piace perchè, al di là dei sentimenti privati di Fick, ha valore da diversi punti di vista. Ci dice per esempio che, malgrado solo “i gladiatori” siano pronti a combattere ogni volta che sono chiamati a farlo, anche i “guerrieri riluttanti” sono capaci di farlo all’occorrenza. E bene.

One Bullet Away  sembra avere la particolarità di essere piaciuto a tutti quelli che l’hanno letto, e il sottoscritto non è esente da questo generale consenso, pertanto penso anche che si possano sprecare tre minuscole critiche: primo, il libro è forse eccessivamente self-centered. L’obbiettivo dell’autore nell’arruolarsi nei Marines era fare qualcosa di speciale per se stesso. Evidentemente c’è riuscito e adesso ne racconta la storia in maniera altrettanto egocentrica. Questa è la storia di Nathaniel Fick, Tenente dei Marines degli Stati Uniti, educato dai Gesuiti e laureato a Dartmouth. Tutto il resto fa da scenario. Questo narcisismo borderline occasionalmente mi ha dato un tantino sui nervi. Seconda critica, in alcuni tratti il testo si fa secondo me eccessivamente lirico. Terzo, un paio degli episodi narrati mi puzzano di abbellimento a fini editoriali, ma non dirò quali perchè non mi sembra giusto mettere in dubbio la buona fede dell’autore solo per una sensazione.

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