venerdì 13 gennaio 2012

Kulturame Classici: Sin City, quella vera.

Una recensione di Wellington.


Mi è capitato recentemente+ di leggere una di quelle raccolte di racconti che ti riconciliano con la narrativa: London Noir - Capital Crime Fiction.

Tutti i racconti si svolgono a Londra ed hanno a che fare con l'underworld criminale o borderline-illegale della capitale britannica, cosa che ne ha reso praticamente obbligatorio l'acquisto da parte del sottoscritto che tra le sue pagine ha ritrovato con delizia fin troppi dei luoghi, degli stereotipi umani e delle situazioni tipiche dei suoi anni di squatting nella "Big Smoke".

Ciascun racconto si svolge in una diversa zona della città. Su è giù, per dirla con la curatrice della raccolta, per "l'Ovest bohemiano, l'iconico Est, il malinconico Nord, il selvaggio Sud". Per chi conosce Londra, il ricreare delle atmosfere è da brivido.

+ notare che questa recensione è stata scritta nel 2006 (NDK).

                                       


Come in tutte le raccolte di racconti di autori vari ce ne sono di veramente brutti, di brutti, di buoni e di decisamente belli.

Tra i buoni e decisamente belli sono sicuramente da annoverare:

"I Fought the Lawyer" (Mayfair) di Michael Ward che è la storia di un ex-prestigiatore passato a fare il borsaiolo che convince un'amica prostituta a ricattare un cliente molto più sveglio di lui.

"New Rose" (New Cross) di John Williams parla di un musicista punk dimenticato e ridotto a fare il tassista che accetta di cercare di convincere un vecchio amico a tornare sulle scene per conto di una casa discografica.

"Loaded" (Brixton) di Ken Bruen è la storia di un tranquillo spacciatore del sud di Londra che viene incastrato da una vulcanica ragazza irlandese e ha uno dei più memorabili incipit che mi sia capitato di leggere: "Date la colpa agli Irlandesi. Io lo faccio sempre. A quelle teste di cazzo non gliene frega niente, ci sono abituati, tutti quei sensi di colpa Cattolici che ereditano, la colpa è, tipo, un'abitudine. Inoltre, tutta quella pioggia che si beccano? Li rende capaci di tollerare qualsiasi merda".

"Penguin Island" (Camden town) di Jerry Sykes parla di un pensionato vedovo che vive solo in un quartiere ormai dominato da gangs giovanili, della sua storia di vita fatta di mitezza al limite della codardia e della sua amicizia finita male con un delinquentello locale.

"Love" (Dagenham) di Martyn Waites è forse il più bello di tutti. Il racconto si ispira chiaramente a fatti avvenuti nel London Bourough of Barking&Dagenham, località da sempre "working class" dell'estremo Nord-Est londinese, dove in tempi recentissimi il partito neonazista ripulito BNP ha conquistato, a suon di retorica anti-immigratoria e per la prima volta nel paese, la maggioranza di seggi d'opposizione al consiglio municipale.

       


Il racconto è la storia di un giovane del luogo che si fa chiamare Jez, abbandonato da piccolo dalla madre scappata con il postino "paki" (greco in realtà ma, dice Jez: "you know what I mean...they are all pakis really"), che vive a Dagenham con il fratello eroinomane e con il padre ex-operaio dello stabilimento locale della Ford.

Quando la Ford ha rinnovato lo stabilimento trasformandolo da semplice catena di montaggio in centro di eccellenza per motori diesel, il padre di Jez e molti altri lavoratori formatisi tramite apprendistato sono stati messi alla porta per fare spazio a tecnici specializzati molti dei quali di origine asiatica. Le case popolari, private degli operai, si sono riempite di nuovi immigrati e di rifugiati politici dai più disparati angoli del globo.

In questo sfacelo Jez sopravvive supportando l'abulia del padre e la dipendenza del fratello con il suo sussidio di disoccupazione e con l'occasionale lavoro edile in nero.

Questo fino a quando un giorno, mentre bada ai fatti suoi, viene avvicinato da Ian, il più figo di tutti i testarasata ("he looked so relaxed, so in control"), che gli confida che lui, questo magnifico esemplare di ribelle anticonformista, capisce bene "la sua rabbia e il suo odio".

Partendo da certe sensazioni che già frullavano nella mente di Jez, l'uomo con anfibi e bomber nero gli fa vedere la luce: "Mi disse di chi era la colpa se mio padre non aveva un lavoro. Di chi era la colpa dell'abitudine di mio fratello. Perchè quella grassa troia di mia madre era scappata a Gillingham. Mise tutto in contesto con la Cospirazione Sionista Globale. Restrinse il campo con immagini che potevo capire: i Pakis, i negri, i rifugiati". Ian gli spiega che Dagenham è una versione in miniatura di tutto il paese: una volta l'Inghilterra era una terra radiosa piena di cavalieri dall'armatura lucente, disseminata di piccole comunità prospere e pacifiche in cui tutti si conoscevano, andavano d'accordo ed erano felici. "Guardai Dagenham. Vidi cemento sbriciolato, bianchi depressi, pakis compiaciuti. Poi guardai di nuovo Ian. E lui mi guardava con il sole dietro le spalle che intorno alla sua testa sembrava un alone di luce, tutto aveva perfettamente senso".

Jez diventa così un "foot soldier" della locale sezione di un partito totalitario e xenofobo. Quando non è impegnato ad assalire "pakis" per la strada insieme a quello che lui chiama "la macchina", ovverosia un variegato branco di altri "foot soldiers", continua con i suoi lavoretti edili e la sua vita grama non cambia minimamente. Però ora è tranquillo e sicuro di se. Non sente più angoscia e non patisce più l'umiliazione (oh, l’umiliazione...) perchè ora conosce la verità e sa quello che è al di là della sua vita grama: un cavaliere dei tempi antichi. E poi la gente ora lo rispetta e lo teme. Come minimo non può più permettersi di non prenderlo sul serio.

Praticamente la storia di qualunque altro piccolo fanatico al mondo, a cominciare dai "pakis" fessi che si vanno a far esplodere in Afghanistan o Iraq.

Il racconto viene un po’ banalizzato nel finale dalla rivelazione che Jez è un omosessuale represso (putacaso con una pronunciata preferenza per il 'big bamboo' di colore). Per quanto io sia pronto ad accettare scommesse sul numero di omossessuali repressi sia tra i neonazisti che tra gli islamisti, buttarla tutta in psicologia freudiana nel finale svilisce un po' secondo me la mirabile ricostruzione della mentalità basso-totalitaria. Rimane comunque un ottimo racconto.



               

Mi dicono che questo libro fa parte di una serie in cui ciascuna raccolta è dedicata al crimine di una grande città del mondo. Se la qualità è la stessa, soprattutto nella ricostruzione delle atmosfere, sarei ben curioso di leggerne altri.

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